Traduzione Emanuela Schiano di Pepe

La recensione. Il mal sano. Contaminiamo per possedere? di Michel Serres

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In letteratura esistono molte definizioni di inquinamento. Ne scegliamo una generica presa dalla National Academy of Sciences Usa: “alterazione non desiderabile delle caratteristiche fisiche, chimiche o biologiche dell’acqua, dell’aria e della terra, che può essere pericolosa, o lo diventerà per la vita umana e per quella di altre specie, nonché per le condizioni ambientali e colturali e che deteriora o deteriorerà le risorse di materie prime». A seconda della matrice interessata dall’alterazione, esistono poi varie sorgenti e vie di inquinamento antropico e molteplici effetti a seconda della natura dell’inquinante. Ma la domanda a cui prova a dare risposta in questo volume Michel Serres, filosofo, professore alla Stanford University e accademico di Francia è: perché inquiniamo?  

Dopo l’analisi di vari filoni di ragionamento l’autore propone un’unica tesi per la risposta: inquiniamo per possedere. Come esempio di partenza viene proposto il comportamento della tigre che orina sul confine della propria tana e lo stesso fanno i cani che marcano il territorio: con le deiezioni si segnano i confini. Sporcando un luogo con i propri rifiuti se ne diventa in qualche modo proprietari impedendone di fatto l’utilizzo ad altri. Questa è l’estrema sintesi di quanto riporta Serres.

Nella prima parte del libro l’autore si rifà all’origine etimologica delle parole e spiega come tutte le deiezioni «urina, sangue, il letame…servivano ad appropriarsi dei luoghi; l’etologia animale, l’antropologia, la storia delle religioni, la sessuologia, il vecchio diritto privato confermano questa analisi…» Nella seconda parte del volume, a nostro avviso più interessante, si sottolinea come «la crescita del volume di rifiuti e deiezioni corporali e fisiologiche […] marca un’estensione dello spazio appropriato (tana, fattoria, città, paese) ed un incremento del numero di coloro che se ne appropriano (individuo, famiglia, nazione)».

E’stato un passaggio graduale, spiega l’autore, che ha portato dai campi ricoperti di letame alle megadiscariche delle metropoli, ai rifiuti non biodegradabili. Non più rifiuti direttamente e soggettivamente generati quindi, ma rifiuti prodotti da processi industriali, da utilizzo di macchine, conseguenti all’atteggiamento tenuto dalla nostra specie, risultata vincitrice, che «si dichiara padrona della natura!».

Serres distingue la contaminazione “dura”, ad esempio i rifiuti liquidi, solidi e gassosi di una grande industria o le grandi discariche di rifiuti urbani, dalla contaminazione “dolce” generata dalle immagini, dalla scrittura, dal logo, dal segno «la cui pubblicità sommerge letteralmente lo spazio rurale e civico, pubblico naturale e paesaggistico». I due impatti hanno pesi diversi se si misura l’inquinamento da un punto di vista energetico o climatico ma il fine, secondo l’autore,  è lo stesso, quello dell’appropriazione, di ampliare lo spazio delle nostre proprietà.

Nell’inquinamento definito duro, ad esempio l’effluente di un fabbrica riversato in un fiume, l’appropriazione è indiretta perché nessuno potrà più bere quell’acqua inquinata o farci il bagno. Coloro che inquinano diventano proprietari di luoghi senza frequentarli ma escludendone chiunque altro.

A nostro avviso la tesi si può ribaltare dicendo che si inquina proprio per mancato senso di appartenenza di un luogo, non ci si sente proprietari, non si gestisce direttamente, il luogo è di tutti quindi di nessuno: alla collettività l’onere di renderlo nuovamente accessibile dopo l’alterazione. L’esempio banale è il mozzicone di sigaretta gettato in strada invece che nel portacenere dell’automobile. Non dimentichiamo poi che il tutto è trainato dalla dimensione economica che guida i processi che governano il mondo. In definitiva si inquina perché si risparmia tempo e soprattutto denaro. Ci troviamo d’accordo invece con l’autore quando sostiene che la contaminazione cresce con la produzione, i ricchi inquinano più dei poveri «la crescita parallela della proprietà, del denaro e dei rifiuti mostra alcuni punti comuni; ci rendiamo proprietari attraverso gli ultimi due».

Analizzando il dumping commerciale, citando Marx, Freud, Zolà per  arrivare al “chi inquina paga”, l’autore spiega le analogie tra denaro ed escrementi (vedi quanto accennato all’inizio) e dimostra come la ricchezza inquina se cerca di diffondersi (attraverso il denaro e la pubblicità). Le interazioni tra quello che Serres definisce inquinamento “duro” e inquinamento “dolce” o moderato aprono il campo a riflessioni «..dimentichiamo che le immagini , i colori, la musica e i suoni, altrettanto fecali, invadono e inquinano lo spazio così come la puzza irrespirabile del gas di scarico e dell’asfalto… L’inquinamento moderato, ugualmente pericoloso se non più nocivo, si appropria degli uomini, dalle relazioni a volte fragili e dalla coscienza inibita». Secondo Serres un errore di valutazione che abbiamo commesso è quello di separare natura e cultura misurando e analizzando l’inquinamento solo in termini fisici e quantitativi «..invece si tratta delle nostre intenzioni, delle nostre decisioni, delle nostre convenzioni. Insomma delle nostre culture». Oggi lo scenario è mutato: l’inquinamento in continua espansione dal XIX secolo si è mondializzato, si sono dissolti i confini e quindi non ci sono più spazi da conquistare, ma la lotta secondo l’autore è contro la produzione, il lavoro, l’esaurimento delle risorse, il commercio… almeno nelle forme dominanti che conosciamo: «chi calcolerà il rendimento decrescente del lavoro produttivo i cui rifiuti  si accumulano a mano a mano che l’utilità dei risultati diminuisce?».

Da una visione pessimista Serres passa gradualmente ad un approccio ottimista, suggerendo una strada “obbligata” da imboccare  attraverso l’istituzione di un nuovo Contratto naturale in cui «non dobbiamo più dichiararci padroni e proprietari della natura. Il nuovo Contratto diventa contratto d’affitto. Quando diventeremo semplici inquilini, potremmo concepire la pace, pace con gli uomini perché pace con il mondo» Di questo si tratta perché da tempo la nostra specie egemone, ha dichiarato guerra al pianeta, il quale dopo un tempo di latenza sta reagendo. Il Contratto naturale che propone l’autore è un “trattato di pace” tra  una specie e l’ambiente in cui vive.