di Emanuela Schiano di Pepe

Satura 3/2008


Il 16 giugno scorso, ad Asiago, è morto Mario Rigoni Stern. È il legame, fortissimo, con l’Altipiano natio e l’amore per la montagna, a spingerlo, diciassettenne, all’arruolamento presso la scuola militare d’alpinismo di
Aosta. Siamo nel 1938 e l’anno successivo, nel settembre, partirà per il fronte occidentale. Dopo questo sarà la volta del fronte albanese e poi del russo. Torna a casa a piedi dalla Prussia orientale nel maggio del 1945.
Di Rigoni Stern conosciamo l’immensa umanità ed un senso della compassione che ci tocca profondamente, per la varietà delle sue
forme e la natura arcaica della sua espressione. La sobria perentorietà delle storie che racconta è radicata nel sentimento di rispetto che egli prova nei confronti della montagna, dei suoi tempi e delle sue regole. Limpida ed esatta è la scrittura, come i valori che distinguono la vita di quest’uomo dell’Altipiano. Nell’autorità struggente che parole tanto semplici sprigionano riconosciamo la forza di un leale confronto tra
l’individuo e la natura. Egli sopravvive al “gelo impietoso nelle stagioni della guerra; e la fame, la miseria l’indifferenza…”, attraversa anni senza primavera, in cui solo i fuochi dei combattimenti avrebbero avuto l’energia per poterlo salvare dalla morte per congelamento. Lo ha protetto la Fortuna, ma anche una conoscenza ancestrale del bosco e degli animali, e l’istintiva familiarità con la neve. Questa è stata dapprima amica (le
corse in slitta da bambino, i giochi) poi è diventata la nemica a cui sopravvivere (Rigoni Stern ricorda le parole di Mussolini a Galeazzo Ciano nel dicembre del ’40: “Questo freddo e questa neve vanno benissimo, così muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza italiana…”) per poi ridiventare amica (una passeggiata notturna sugli sci attraverso il bosco, un anno dopo il rientro a casa, celebra il pieno senso di quel
ritorno). Addirittura protettrice e materna la neve, se sfregata quando si sentono i diavoli nelle mani, scongiura i geloni, è buona da annusare ed il suo odore è diverso da quello della pioggia o della nebbia e nella sua bellezza, “leggera come piume d’oca”, conserva, fedele, il ricordo dei fratelli caduti. Rigoni Stern fa parte del paesaggio. Attore in una geografia umana e naturale di cui ogni individuo dovrebbe essere cosciente e responsabile, partecipa ad un equilibrio che è anche fatto di solidarietà inaspettata tra
nemici, di fratellanza in momenti di tragedia, di animali protetti come bambini o fedeli come compagni, di alberi dai destini umani,
di caccia come disciplina della sfida e della reciproca conoscenza. Se Primo Levi osserva la natura con intelligente e scientifico sguardo cittadino (ricordiamo qui la conversazione immaginata in Sentieri sotto la neve), Rigoni Stern pensa ed agisce secondo i precetti che la montagna stessa gli ha
impartito. Egli ascolta il bosco, osserva per ore il mitologico urogallo per poterlo anticipare ed affrontare, abbevera le api se il luglio è eccezionalmente asciutto e durante la prigionia nel campo di Innsbruck va a caccia del cervo con gli abitanti del fondovalle, a corto di uomini, spartendo con i nemici il rito primordiale ed i suoi frutti. Rigoni Stern ha compreso e condiviso con i lettori lettori ben più di una drammatica esperienza bellica. “Vorrei che tutti – scrive nella prefazione a Uomini, boschi e api – potessero ascoltare il canto delle coturnici al sorgere del sole, vedere i caprioli sui pascoli in primavera, i larici arrossati dall’autunno sui
cigli delle rocce…”: uomini, alberi, animali, lune…. abbiamo voglia di pensare che l’inquietudine che il concetto di frontiera suscita in Rigoni Stern (“un’idea dell’uomo, non della natura…”) vada oltre il principio politico geografico, trasmutandosi in un naturale esercizio di compassione e comprensione universale.