Lettere al Corriere, 30 maggio 2010

Leggendo il commento di Erasmo da Rotterdam a uno degli «Adagia», «Lo scarabeo dà la caccia all’aquila», ho trovato un periodo sul carattere dei principi di un’attualità sconcertante. Lo trascrivo testuale sperando che lei lo offra alla riflessione dei suoi lettori: «Ce ne sono di quelli —Dio mi è testimone — spronati alla rapacità, oltre che da un’educazione aberrante, da mille e mille pungoli: tutto uno sciame consenziente di adulatori, una nutrita schiera di funzionari depravati e di consiglieri corrotti, una folta cerchia di amici dissennati, un bel drappello di compari dissoluti e irresponsabili, che considerano le calamità pubbliche come un gradevole diversivo, anche quando non gliene viene niente in tasca. Non è finita: bisogna tener conto della magnificenza ostentata, dei godimenti raffinati, dello sfarzo e dei giochi, al cui finanziamento non c’è ruberia che basti. Per soprammercato, bisogna tener conto dell’inettitudine e dell’ignoranza, che non sono mai così pervicaci come quando si accoppiano con la prosperità. Sono circostanze che potrebbero traviare anche l’indole più felice e ben disposta; quale sarà il risultato se esse si assommano a un’indole ingorda e maligna? Sarà come gettare olio sul fuoco!».

Caro lettore, devo ricordare ai lettori anzitutto che gli «Adagi », come vengono abitualmente chiamati in italiano, sono un piccolo capolavoro dell’umanesimo europeo e l’opera che dette al suo autore, Erasmo da Rotterdam, una straordinaria notorietà. È una raccolta di proverbi, massime, aforismi, un patrimonio di saggezza, perspicacia e buon senso che Erasmo riunì e commentò con grande eleganza e sapienza. La prima edizione risale al 1500 e la seconda, ampliata, fu pubblicata dal grande editore veneziano Aldo Manuzio nel 1508 sotto il titolo per l’appunto di «Adagia». La più recente in Italia è quella dell’editore Salerno, a cura di Davide Canfora, pubblicata nel 2002. Il passo da lei scelto, caro Milanesi, è uno dei più efficaci ed è, purtroppo, straordinariamente attuale. Posso soltanto ricambiare il regalo offrendo a lei e ai lettori un testo complementare, scritto quasi tre secoli dopo, in cui Paul H. D. d’Holbach (illuminista, amico di Diderot e di Alessandro Verri, collaboratore d e l l ’ E n – cyclopédie, morto a Parigi nel 1789, un mese prima della presa della Bastiglia) descrive i cortigiani del principe. Ecco un passaggio tratto da un volumetto dell’editore Melangolo di Genova intitolato «Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei cortigiani». La bella traduzione è di Emanuela Schiano di Pepe. «L’uomo di Corte è senz’ombra di dubbio il prodotto più bizzarro di cui dispone la specie umana. (…) sembrerebbe lecito classificarlo grossomodo nella categoria degli esseri umani, fermo restando che gli uomini ordinari hanno soltanto un’anima, mentre l’uomo di Corte pare ne abbia diverse. (…) L’arte di strisciare è senz’altro la più difficile da praticare. Tale sublime disciplina è forse la più grande conquista fatta dall’essere umano. La natura ha posto nel cuore degli uomini un amor proprio, un orgoglio, una fierezza che sono le inclinazioni più penose da sconfiggere. L’anima si ribella contro tutto ciò che tende a deprimerla; reagisce vigorosamente ogni qualvolta viene colpita nel suo punto debole; e a meno di acquisire fin da subito l’abitudine a combattere, frenare e reprimere questo potente impulso, risulterà impossibile dominarlo in seguito. Il cortigiano si dedica fin dall’infanzia a tale esercizio: uno studio utile forse quanto altri più enfaticamente decantati, e che denota in coloro che hanno acquisito la facoltà di soggiogare la natura, una forza di cui solo pochi sono dotati. È attraverso questi eroici sforzi, queste lotte, queste vittorie che si distingue un cortigiano esperto, oggetto dell’invidia dei suoi simili e della pubblica ammirazione».

Sergio Romano